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INDAGINI SVOLTE

Eccidio del 1945 presso abitazione privata – S. Margherita d’Adige (PD)

 

Resoconto indagine a Santa Margherita d'Adige, Casa Rinaldo-Bogoni, 25-05-2015.
Partecipanti all'indagine: Orazio Daniele, Rodolfo Bortoletto, Alessio Pezzin.
L'indagine si è principalmente svolta nella casetta che si trova all'interno del podere agricolo della famiglia Bogoni. La storia vuole che il 27 aprile del 1945 una colonna di soldati tedeschi in ritirata si fermò presso la fattoria per requisire degli animali, quando si scontrarono a fuoco con i componenti della famiglia, che ebbero la peggio: 8 morti, tra i quali due fattori che lavoravano presso la tenuta.
L'indagine è cominciata verso le sette e mezza di sera e si è conclusa verso la mezzanotte. Durante questo lasso di tempo, non sono mancate le sorprese. Presunte voci e rumori di passi sulle scale sono stati uditi dai presenti appena è stata nominata la parola "tedeschi". Di certo, l'atmosfera percepita era molto pesante, a causa soprattutto della storia triste legata a questo posto. Inoltre, c'è una leggenda inerente a Casa Bogoni: si dice che sette croci apparvero nel muro della stalla e non c'è stato alcun modo di cancellarle, nè pulendo la parete, nè riverniciandola. addirittura, si era ricorsi ad un prete per benedire la stalla, ma tutto fu inutile. Scomparvero solo dopo il massacor compiuto dai tedeschi. Mistero? O c'è qualche fondo di verità dietro a questa diceria?
Ringraziamo di cuore l'azienda florovivaistica Roberta Rinaldo di Santa Margherita d'Adige per il permesso concesso per le nostre indagini in tale luogo.

Ex Forte di Cima Campomolon di Arsiero, nell'altopiano Fiorentini-Tonezza (VI)

Resoconto dell'indagine a Forte Campomolon (Arsiero, Vicenza) 01-06-2015.

 

Partecipanti all'indagine: Orazio Daniele, Rodolfo Bortoletto, Alessio Pezzin.
Arriviamo a Forte Campomolon nel tardo pomeriggio, quindi si disloca l'attrezzatura presso una stanza esterna del forte. Premettiamo che la struttura bellica si presenta in forma di rudere, in parte dentro la cima dell'omonimo monte. Oltre alle camerate esterne, molto probabilmente utilizzate come alloggio dei soldati, lungo il tunnel interno sono presenti altre stanze, fose dei depositi di munizioni in quanto vicini alle batterie dei cannoni. L'indagine comincia dopo l'imbrunire, verso le dieci di sera. La temperatura si attesta intorno ai 9°C.Prima però lasciamo i registratori accesi nelle varie stanze isolati,tutta la scquadra fuori dal forte ed in silenzio.Poi terminato, concentriamo le operazioni principalmente lungo il corridoio interno e in un paio di camerate attigue. Si esperimenta lo "spunto quantico" in una camerata con una canzone alpina risalente agli anni della prima guerra mondiale e che narra le gesta dei soldati di allora: "Ta-pum". Proviamo più di una volta a far partire questa musica nel silenzio della zona circostante e i presenti odono dei singolari rumori, come dei fischi e dei passi. Successivamente, si passa nel corridoio interno e si prova a rimanere in silenzio per qualche minuto dopo aver chiesto alle presunte entità se sono in loco.  Proprio mentre si stava raccogliendo l'attrezzatura per andarcene via, tutti hanno udito un sospiro.
LA STORIA DI FORTE CAMPOMOLON. Costruito intorno al 1912 e mai portato a termine, Forte Campomolon aveva soprattutto il compito di vigilare sulla Val d'Astico e sulla piana di Tonezza. Fu armato con una batteria di obici da 280 mm su postazioni esterne defilate, ma a loro volta gli austriaci colpivano con i mortai da 305 e 420 mm da malga Laghetto sull'altopiano di Lavarone, lesionandolo gravemente. Sulla cima del forte si notano chiaramente le sedi per le piazzole dove dovevano venir montati i cannoni da 149 mm. Fu fatto saltare dagli italiani stessi il 19 maggio 1916, quattro giorni dopo l'inizio della spedizione austriaca di maggio, la Strafexpedition, che qui infuriò violentemente quale uno dei tre flussi principali, per arrestarsi, con grandissimo sacrificio di sangue, proprio sul Cimone di Tonezza. A farlo saltare fu l'ingegnere Paolo Ferrario, sottotenente del genio, che nell'operazione perse la vita: lo ricorda una targa sul forte. (Fonte: www.magicoveneto.it)

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Forte Belvedere-Gschwent

Werk Gschwent di Lavarone, oggi meglio noto come Forte Belvedere, fu progettato dal tenente del Genio ing. Rudolf Schneider e realizzato tra il 1908 e il 1912 poco lontano dall’abitato di Óseli, su uno sperone di roccia calcarea (a quota 1177 m) che sporge a strapiombo sulla Val d’Astico, vallata che all’epoca sanciva il confine di stato fra Regno d’Italia e Austria-Ungheria.. La fortezza è composta da vari blocchi scavati nella montagna: la casamatta principale – che ospitava alloggiamenti, magazzini, servizi logistici - il blocco batterie in posizione avanzata, un’opera di controscarpa nel fossato e tre avamposti corazzati. Per resistere ai più pesanti bombardamenti fu dotato di una copertura di oltre due metri e mezzo di calcestruzzo nel quale fu inserito un triplo strato di putrelle d’acciaio da 400 mm. Concepito, come le altre fortezze degli Altipiani, per resistere in assoluta autonomia a bombardamenti che potevano durare per giorni e giorni, disponeva di ampi depositi, di un acquedotto munito di potabilizzatore, una centrale elettrica interna, un pronto soccorso per gli eventuali feriti, una centrale telefonica e una stanza di telegrafia ottica per poter comunicare con l’esterno.

Al comando del capitano Anton Perschitz, la guarnigione era composta da centosessanta Landsschützen (1° reggimento) supportati da sessanta territoriali. L’armamento era invece costituito da tre obici da 10 cm, prodotti dalla Skoda Werke di Pilsen in Boemia, in cupola corazzata e da ventidue postazioni di mitragliatrice. Nel corso del primo anno di guerra subì pesanti bombardamenti ed ebbe numerose perdite ma non fu investito dalla furia di ferro e fuoco che nel settore di Passo Vézzena e Luserna mise a durissima prova Forte Cima Vézzena, Forte Busa Verle e Forte Lusérn, e, anche grazie alla sua posizione dominante sulla Val d’Astico, non ricevette mai un assalto diretto da parte delle fanterie italiane. Nel primo dopoguerra il forte passò nelle mani del Demanio che lo subaffittò per un lungo periodo al Comune di Lavarone. Diversamente dalle altre fortezze degli Altipiani, per decreto regio di Vittorio Emanuele III, Forte Belvedere si salvò alla demolizione ordinata dal governo fascista in tempo di autarchia.

Nonostante ciò nel novembre 1940 iniziò un parziale smantellamento dell’opera. In particolare furono asportate le cupole corazzate, fu prelevato il primo strato di putrelle dalle coperture e fu asportato il rivestimento metallico del tetto. Dopo la seconda guerra mondiale il forte passò di proprietà alla Regione Trentino Alto Adige e dal 1966 ad un privato che con lungimiranza lo ripristinò parzialmente trasformandolo in un museo. Nel 1996 fu acquistato dal Comune di Lavarone (con il determinante contributo della Provincia Autonoma di Trento) che operò un profondo restauro conservativo, il ripristino della copertura originale in zinco, la sistemazione dei solai e un completo risanamento del sito. Si provvide inoltre all’allestimento di un moderno e aggiornato museo storico (testi in italiano, tedesco, inglese) con fini divulgativi e didattici, dedicato non soltanto a Forte Belvedere e alle fortezze degli Altipiani, ma anche alle più ampie problematiche locali e internazionali della prima guerra mondiale. Oggi, inoltre, grazie all’interessamento della Provincia Autonoma di Trento e alla realizzazione dello Studio Azzurro di Milano, Forte Belvedere rivive il dramma della guerra tramite l’allestimento di una serie di installazioni multimediali interattive che rievocano scene di vita quotidiana all’interno della struttura durante il conflitto; un esperienza emotiva che vuole far riflettere sull’orrore di una delle guerre più sconvolgenti di sempre e un monito di pace per le nuove generazioni.

 

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evp infermeria / il registratore si trovava sopra alla brandina,sembrerebbe un russare di una persona.

evp colpo di un pezzo di ferro udito da tutti i partecipanti dell'indagine.

evp colpo,il registratore è stato lasciato all'interno delle postazioni cannoni. Se si ascolta bene sembrerebbe o un caricamento cannone,o lo sparo stesso.

evp colpo 2 sempre nella postazione cannoni,ache questo evp,sembrerebbe un colpo o un carricamento cannone. Per noi è stato classificato come inspiegabile.

 

Durante l'indagine al castello di bardi abbiamo sentito un lamento provenire dietro di noi,precisamente nel piazzale.Restando sempre in silenzio ci siamo girati e il nostro Rodolfo ha subito scattato varie foto sullo stesso punto. Abbiamo percepito rumori e lamenti.la nostra indagine ha terminato alle ore 04,30. in un 2° momento abbiamo analizzato tutto il materiale a noi in possesso e ci siamo accorti di un particolare sulla finestra dell'edificio che si affaccia sul piazzale ,chiamato Piazzale delle armi, sembrerebbe un volto, ma non è tutto, oltre alle foto scattate in sequenza,nello stesso istante che abbiamo sentito il lamento,tutte le aparecchiature in nostro possesso,(videocamere e videoregistratori )ha registrato un lamento.

Qui sotto viene riportato sia le registrazione dei registratori che quelle delle videocamere.

Per noi tutto questo è stato classificato come inspiegabile.

MONTE CENGIO,INFERMERIA

LA BATTAGLIA DEL MONTE CENGIO:

 Il 15 maggio 1916, ad un anno dall'inizio della prima guerra mondiale, l'esercito austro-ungarico lanciò un'offensiva sugli altipiani trentini e veneti, meglio conosciuta come Strafexpedition, al fine di invadere la pianura padana e prendere alle spalle l'esercito italiano schierato sul Carso. Il 28 maggio 1916, dopo aver superato in ripetuti assalti le linee difensive italiane, i fanti imperiali entrarono ad Asiago e si prepararono ad affrontare l'ultimo baluardo montano a guardia della pianura vicentina: il pianoro del Monte Cengio. 
Lo stesso giorno il Gen. Cadorna aveva inviato sull'Altopiano dei Sette Comuni la Brigata Granatieri di Sardegna, comandata dal Gen. Pennella, con il compito di fermare l'avanzata austriaca sulle ultime propaggini meridionali della montagna. I soldati italiani occuparono alcuni rilievi a nord (corona) del Cengio, Monte Barco, Monte Belmonte, quota 1152 di Cesuna, oltre naturalmente allo stesso sistema montuoso del Cengio. Su queste posizioni combatterono per giorni senza cannoni, con poche munizioni e con scarse riserve di viveri ed acqua. Il 3 giugno 1916, dopo aver respinto per giorni i furiosi assalti degli austro-ungarici, subendo gravi perdite, i granatieri si trovarono circondati nelle trincee del Monte Cengio. Con un ultimo assalto, l'esercito imperiale conquistò la montagna, catturò ufficiali e semplici granatieri che non erano riusciti a sfuggire all'accerchiamento e che avevano tentato di resistere fino all'ultimo in trincea.

Castello di Stigliano in provincia di venezia

Il Castello di Stigliano
Tracce del Castello di Stigliano risalgono sino ai tempi dei romani, in quell'epoca era un castellario di vedetta, posto a difesa del territorio, dotato di poste per il cambio degli animali e punto di ristoro per i viandanti.
Data certa della sua nascita si ha attorno all'anno 1152, quando fu dato in proprietà al Vescovo di Treviso, con bolla Papale da Eugenio III, assieme ad altre proprietà.
Il castello da questo momento passa da un proprietario ad un altro, dai Tempesta ai Soprovo, fino ad essere donato all'ordine dei monaci Templari, rappresentati all'ora da tale Corrado Daneult/frate Maresciallo.
Il passaggio da proprietario ad un altro era cosa normale all'epoca, per cui molti proprietari si succedettero nella sua storia e, come se questo non bastasse, il Castello si trovava a metà strada tra Padova e Treviso, ne consegue che la sua vita politico-amministrativa fosse molto contesa.
I Cavalieri Teutonici furono sciolti tra il 1307 e il 1314, con un processo farsa e costoro non poterono che consegnare il Castello al signorotto di turno, dopo averlo conservato e utilizzato come presidio con compiti di ospitalità e appoggio logistico.
Non passarono molti anni che arrivò Ezzelino III, aveva feroce ambizione di conquistare tutto il Veneto e, dopo essere stato respinto da Padova, i Veneti dovettero soccombergli, si parla di venti o trenta mila morti, in una guerra che portò il Papa stesso ad inviare un suo messaggero per sanare la situazione, l'armistizio fu firmato al Castello di Stigliano tra Padovani, Trevigiani e Ezzelino III nel 1235, pace che durò solo due anni.
Ezzelino si servì del Castello per conquistare la vicina Noale, dove eresse il Castello di Noale, che collegò tramite un tunnel al Castello di Stigliano, nel 1249 conquistò Treviso e poi si spinse verso Milano, dove fu sconfitto nel 1259. 
Passato il ciclone Ezzelino, vi fu un periodo di relativa pace che durò 50 anni.
La vicenda politico-militare della nostra zona non era terminata, perché stavano arrivando gli Scaligeri da Verona con Can Grande, succeduti poi dai Da Carrara, passando per Francesco I° detto Il Vecchio fino ai Cararesi, con la famiglia Tempesta che faceva da sfondo nelle continue alleanze, fino al 1388 quando persero potere e importanza, tutti questi personaggi volevano una e una sola cosa, conquistare il Veneto.
Attorno al 1384 il Castello era difeso da un valoroso guerriero, il Comandante Giacomo da Scaltenigo, che cadde da eroe il 23 giugno 1404, a lui è dedicato un affresco in una sala chiamata appunto sala del guerriero. 
Dopo numerosissime guerre, che hanno infiammato tutto il territorio Veneto, arrivò la Serenissima e il suo regno durò dal 1405 al 1797. 
Il Castello viene affidato dalla Serenissima alla famiglia Cesena, che lo gestisce fino al 1520, famiglia Patrizia ricca conosciuta sin dal 1096, a questi si succedono i Priuli, e si deve a loro una delle tante trasformazioni del Castello, così come lo si conosce oggi, abbandonando tutte le velleità militari precedenti.
All'arrivo di Napoleone il territorio fu diviso in podestarie e queste in vicarie.
Ora come allora, il Castello continuò a cambiare proprietario, così dai Priuli si passò ai Venier, ai Fracasso, ai signori di Venezia, arrivando sino allo scoppio del primo conflitto mondiale 1915-1918. Il Veneto fu teatro di campi di battaglia di prima linea e come tale necessitava di ospedali da campo, è così, che il Castello divenne un importante ospedale, detto “Ospedale di Tappa”, con la fine della guerra termina anche l'attività di ospedale, venne poi utilizzato per dare ospitalità agli sfollati della seconda guerra mondiale e si utilizzò anche per supplire alla mancanza di aule scolastiche, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Oggi è di proprietà della famiglia Bertan, che lo possiede dal 1989.

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Villa Magnoni Cona  

(FE)

A Cona, nei pressi di Ferrara, sorge Villa Magnoni, il cui aspetto desta curiosità perché ha tutte le finestre murate, eccetto una; la ragione risale ad un incidente avvenuto negli anni Ottanta, che costò la vita a tre ragazzi entrati nella villa. Uno dei ragazzi alzò la testa e notò una vecchia affacciata alla finestra del piano superiore, che cominciò a sbraitare verso di loro e ad insultarli. Spaventati da quella presenza, in una casa notoriamente disabitata, i quattro scapparono, saltarono in macchina e si dileguarono. si è ipotizzato che i quattro, spaventati, corressero un po' troppo velocemente; fatto sta che la macchina finì fuori strada e, nell'incidente, tre dei quattro ragazzi morirono.Da quelle parti è conosciuta come Villa Magnoni, presumibilmente dal nome della famiglia che l’abitava, ma nessuno pare aver rivendicato la proprietà. Una maledizione aleggia tra le mura silenziosa di questa grande casa abbandonata ed è quella che parla della morte di alcuni ragazzi una trentina di anni fa. Si racconta infatti che verso la metà degli anno Ottanta quattro ragazzi fossero arrivati nel cortile della Villa durante una passeggiata da quelle parti. Si accorgono che la casa abbandonata ha molte finestre aperte e passaggi accessibili, decidono così di entrare e di esplorare il primo piano della casa. Durante l’esplorazione, però, vengono raggiunti dalle urla di qualcuno. Spaventati, si girano e vedono affacciata a una delle finestre del primo piano una donna molto vecchia, comparsa da chissà dove, che gli intima di andarsene e di non tornare più. Terrorizzati i ragazzi scappano via, ma mentre corrono sulla strada vengono travolti da un’automobile e muoiono in tre. Il quarto riesce a salvarsi e racconta tutta la storia. L’amministrazione comunale decide di far murare tutte le finestre della Villa, per evitare altri incidenti similari, ma esattamente una settimana dopo la finestra dove la strega si sarebbe affacciata per spaventare i ragazzi è libera e senza più murature. Da allora nessuno ha più tentato di comprarla e si mormora che i visitatori incauti che si avventurano da quelle parti sentano dei borbottii femminile che intimano loro di andarsene da lì. 

 

AVVERTENZA: se privi di un regolare permesso,in quanto l'edificio e il giardino circostante sono tutt'ora PROPRIETA' PRIVATA.Circa un anno fa infatti il presunto custode,chiamato su segnalazione,fece sequestrare le armi a pallini ad alcuni ragazzi intenti a divertirsi,ignari del severo divieto. Una volta allontanati,sono stati poi denunciati per violazione e occupazione di suolo privato.EVITATE POSSIBILMENTE DI INCAPPARE IN QUESTI RISCHI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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EX MANICOMIO INFANTILE DI AGUSCELLO (FE)

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Nelle campagne ferraresi un posto in rovina da molti anni: il manicomio di Aguscello, racchiude un mistero davvero inquietante. La storia della struttura ha inizio negli anni quaranta del secolo scorso. In questo ex manicomio venivano rinchiusi dei bambini,dove venivano trattati con modi violenti e custoditi in condizioni terribili.
L'ospedale psichiatrico infantile è stato chiuso definitivamente intorno alla meta degli anni settanta. Il fatto più sconvolgente che vede come protagonista il manicomio di Aguscello e che prima della definitiva chiusura; tutti i bambini rinchiusi al suo interno: trovarono la morte in circostanze misteriose, a causa di un incendio o di un epidemia. Questo fatto resta ancora oggi un mistero. Quello che pero è ancora più incredibile è, che la leggenda vuole che cera una fossa dove venivano gettati i corpicini di questi bambini che non reggevano alle torture.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CASTELLO DI BARDI (PR)

Il castello di Bardi, detto anche castello Landi, è un'imponente fortificazione che sorge su uno "scoglio" di diaspro rosso nell'omonimo paese in provincia di Parma.

Posto al centro della valle del Ceno, l'edificio sovrasta il punto in cui il torrente Noveglia confluisce proprio nel Ceno. Anche se oggi la posizione geografica del paesino sembra defilata e fuori dalle rotte commerciali e turistiche, nel medioevo, quando differenti erano i percorsi e le necessità di controllo del territorio, si trattava di un'importante tappa sul percorso della via degli Abati. Inoltre, non lontano transitavano i pellegrini della via Francigena.

Il nome "Bardi" deriva da Longobardi. L'esistenza di un fortilizio risale al regno di Berengario del Friuli. Nell'898 l'edificio venne venduto al vescovo di Piacenza Everardo, che ne fece un sicuro rifugio in caso di aggressione da parte degli ungari, che in quei tempi razziavano la pianura Padana.

Fino al XII secolo il castello fu governato da una consorteria di nobili locali, conosciuti come conti di Bardi, finché, nel 1257, fu acquistato, con il vicino castello di Compiano, dalghibellino Umbertino Landi di Piacenza, che ne fece la capitale dei domini della sua famiglia. Ai piedi delle sue possenti mura si svolsero molte battaglie contro i guelfi, sconfitti tra l'altro nel 1313. Nel corso del XV secolo i Landi modificarono la rocca, adeguandola alle nuove esigenze difensive e conferendole l'aspetto attuale.

Panorama di Bardi con il castello dei Landi.

Nel 1551 Carlo V d'Asburgo conferì ai Landi il rango di marchesi e concesse loro il privilegio di battere moneta. Sul finire del XVI secolo, per volere di Federico Landi, il castello diventò una residenza principesca dotata di pinacoteca, archivio di famiglia, biblioteca ed esposizione di armi. Nel 1682, con l'estinzione dei Landi, cominciò la decadenza del castello: il feudo passò ai loro storici rivali, i Farnese, e successivamente ai Borbone Parma. La struttura, nel corso del XIX secolo, continuò a decadere e fu adibita a prigione militare, sede della pretura e del comune. Il recupero cominciò dopo gli anni sessanta.

 

 

 

I Longobardi furono una popolazione germanica, protagonista tra il II e il VI secolo di una lunga migrazione che la portò dal basso corso dell'Elba fino all'Italia. Il movimento migratorio ebbe inizio nel II secolo, ma soltanto nel IV l'intero popolo avrebbe lasciato il basso Elba; durante lo spostamento, avvenuto risalendo il corso del fiume, i Longobardi approdarono prima al medio corso del Danubio (fine V secolo), poi in Pannonia (V secolo), dove consolidarono le proprie strutture politiche e sociali, si convertirono - solo parzialmente - al cristianesimo ariano e inglobarono elementi etnici di varia origine, germanici per la massima parte.

Entrati a contatto con il mondo bizantino e la politica dell'area mediterranea, nel 568, guidati da Alboino, si insediarono in Italia, dove diedero vita a un regno indipendenteche estese progressivamente il proprio dominio sulla massima parte del territorio italiano continentale e peninsulare. Il dominio longobardo fu articolato in numerosi ducati, che godevano di una marcata autonomia rispetto al potere centrale dei sovrani insediati a Pavia; nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di sovrani come Autari, Agilulfo (VI secolo), Rotari, Grimoaldo (VII secolo), Liutprando, Astolfo e Desiderio (VIII secolo) estesero progressivamente l'autorità del re, conseguendo progressivamente un rafforzamento delle prerogative regie e della coesione interna del regno. Il Regno longobardo, che tra il VII e l'inizio dell'VIII secolo era arrivato a rappresentare una potenza di rilievo europeo, cessò di essere un organismo autonomo nel 774, a seguito della sconfitta subita a opera dei Franchi guidati da Carlo Magno.

Nel corso dei secoli, i Longobardi, inizialmente casta militare rigidamente separata dalla massa della popolazione romanica, si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola (bizantine e romane). La contrastata fusione tra l'elemento germanico longobardo e quelloromanico pose le basi, secondo il modello comune alla maggior parte dei regni latino-germanici altomedievali, per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei secoli successivi.

 

 

 

Leggenda antica che narra la vicenda di Moroello e Soleste della Fortezza di Bardi. 
Soleste, la giovane figlia del castellano freme per Moroello comandante delle truppe, ma il padre l'ha promessa in sposa ad un feudatario vicino. Un matrimonio che porterà nuove terre ed una solida alleanza. 
Solo la balia aiuta Soleste e Moroello e si prodiga affinché i due ragazzi possano incontrarsi e stare insieme. Purtroppo la malasorte sta per accanirsi contro i due giovani amanti.
Moroello deve difendere i confini dello Stato e parte con i suoi soldati. Ogni giorno Soleste sale sul mastio della fortezza ove è possibile spaziare con lo sguardo sulle due vallate e spiare il ritorno di Moroello. 
Dopo lunghe settimane di attesa finalmente vede avvicinarsi uomini a cavallo, ma sono troppo lontani per poter distinguere i colori e gli stemmi. Solo quando i cavalieri arrivano alla confluenza fra i torrenti Ceno e Noveglia, Soleste nota che i colori non sono quelli dei Landi. 
Questo significa che Moroello è stato sconfitto! Soleste si uccide gettandosi dal mastio. 
In realtà Moroello ha vinto la sua battaglia. Indossa i colori del nemico battuto come ultimo spregio. E' la balia a dare la triste notizia del suicidio a Moroello ed assistere all'urlo straziante mentre egli si getta dagli spalti della Piazza d'armi 

All'interno della fortezza, oltre alla struttura fortificata, sono visitabili: Museo della Civiltà Valligiana. 5 Sale Alpine dedicate al Capitano Pietro Cella, 1ª medaglia d'oro del Corpo Alpino. Il Museo della Fauna e del Bracconaggio. Il Museo Archeologico della Valle del Ceno.

UN RINGRAZIAMENTO A CHI CI HA DATO LOPPORTUNITà DI SVOLGERE AL MEGLIO LA NOSTRA INDAGINE IN QUESTO MERAVIGLIOSO CASTELLO GRAZIE ANCORA DALLO STAF Europa Investigation.

 

 

 

 

 

 

 

 

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foto scattata nella piazza d'armi. 

STORIA

CHI ERANO I LONGOBARDI?

LA LEGGENDA

l'isola di Poveglia (ve)

La Storia

In Italia ci sono dei posti davvero incantevoli che ogni anno attirano migliaia di turisti da tutti il mondo. Una delle città più belle d’Italia è, Venezia. Grazie ai suoi caratteristici canali, Venezia è sicuramente una delle città più affascinanti del mondo. Oggi ti vogliamo presentare un isola che si trova a sud della Laguna Veneta e che si chiama Poveglia. Devi ben sapere che si tratta di una delle isole più piccole della laguna e che si trova tra Venezia e Lido.

Si racconta che la fama sinistra dell’isola sia dovuta al fatto che un tempo fu sede sia di un lazzaretto sia, successivamente, di un manicomio, ma anche altre isole furono sedi di lazzaretti per la peste, ma non portano con sé leggende nere. La storia di Poveglia è un po’ più complessa e affonda le sue radici nel medioevo. Attorno al Trecento, l’isola era  prospera e abitata da ricchi possidenti. Tutto questo fino al 1379, alla guerra di Chioggia, guerra tra le due Repubbliche marinare Venezia e Genova. Vista la posizione strategica dell’isola, essa fu completamente sgomberata per permettere la costruzione di postazioni militari a difesa di Venezia. E così l’isola non fu più praticamente abitata fino al Settecento, quando allo scoppio della peste Poveglia seguì il destino di altre isole e divenne una sorta di lazzaretto. I cadaveri dei morti per la peste dovevano essere portati là e bruciati. Ma poi capitò qualcosa ,Poveglia divenne l’isola della quarantena, dove individui ancora coscienti, a volte non ancora contaminati, venivano condotti a morire lontano da Venezia. Uomini, donne e bambini morirono lentamente, consumati dalla malattia. La testimonianza di questo strazio si trova nel terreno di Poveglia stessa, dove sotto nel terreno e macerie, vengono ancora oggi rinvenuti migliaia di corpi .Da allora sono iniziate le storie sulle apparizioni nell’isola, fantasmi di coloro che erano stati portati a morire lentamente e lontano da tutti. Anime inquiete che ancora oggi si aggirano tra le mura dei vecchi edifici militari. E non solo. Nei primi anni del Novecento a Poveglia viene costruito un edificio che apre la strada a nuove leggende nere. Nel 1922 fu infatti eretto un edificio che ufficialmente era una casa di riposo per anziani, ma che in realtà sembrerebbe stato una clinica per malati di mente. Il manicomio, attivo fino al 1946, anno in cui fu ufficialmente chiuso, ospitava povera gente con problemi psichici; spesso raccontavano di vedere i fantasmi di coloro che secoli prima erano morti di peste, ma ovviamente non erano creduti, anzi sembra fossero trattati da cavie per alcuni esperimenti, effettuati proprio dal direttore del manicomio. Trattandosi di individui classificati come “malati di mente”, i loro racconti non vennero mai presi in seria considerazione e, anzi, funsero da pretesto per soddisfare i sadismi del direttore, che la leggenda ci descrive come un sadico lobotomizzatore. I mezzi adoperati nel manicomio di Poveglia per la cura dei malati di mente sembra fossero atroci e primitivi. Ovviamente, come tutte le leggende che si rispettano, anche questa finisce con la morte del cattivo, in questo caso il dottore che, tormentato dagli spiriti dei pazienti da lui uccisi, si uccise buttandosi da un campanile. Altre fonti riportano invece che la sua morte fu dovuta a qualche evento soprannaturale, ma come si può ben capire, nulla è certo. Con la morte del medico e la chiusura del manicomio, Poveglia diventa un’isola disabitata e acquista la nomea di isola maledetta e custode di fantasmi ancora oggi intrappolati nel loro luogo di morte.

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Ex Colonia

Presidio bellico Tedesco

La Storia

Il vero e proprio sistema difensivo progettato dalla Repubblica di Venezia per proteggere la città e la sua laguna si sviluppò invece progressivamente a partire dal XIV secolo. Con l'avvio dell'espansione veneziana in terraferma, il baluardo avanzato di difesa della città divenne il nuovo Castello di Mestre, costruito per difendere le principali vie di collegamento con l'entroterra. Attorno al 1380, poi, nel pieno della guerra con Genova, la minaccia rappresentata dalla presenza della flotta ligure, penetrata in laguna attraverso Chioggia, impose per la prima volta a Venezia la necessità di sbarrare con maggior decisione gli accessi marittimi alla città. La via navigabile che, risalendo da sud conduceva direttamente nel bacino San Marco venne dunque bloccata decretando lo sgombero del borgo di Poveglia, dove già sorgeva un castello, e la realizzazione davanti all'isola una piccola fortezza a pianta ottagonale destinato ad ospitare batterie d'artiglieria: l'ottagono di Poveglia.

Superata questa prima minaccia, la crescente potenza dell'Impero ottomano spinse nel XVI secolo il Senato veneziano ad avviare una più decisa opera di rafforzamento delle difese lagunari. Nel 1538 venne inaugurato così a Chioggia il nuovo forte di San Felice. Seguito poi, nel 1543, dal decreto che ordinava la costruzione, all'ingresso del Porto di Lido, del possente Forte di Sant'Andrea, opera del Sanmicheli. Circa nella stessa epoca venne avviata anche la costruzione del Forte di Sant'Erasmo, a Venezia, e del Forte di Brondolo a Chioggia. Nel 1571, poi, il Senato decretò anche la realizzazione di nuovi ottagoni per il controllo della bocca di porto di Malamocco, realizzati su progetto di Jacopo Sansovino o, più probabilmente, del solito Sanmicheli. Nel 1591, poi, la difesa dell'accesso settentrionale alla laguna venne ulteriormente rafforzato con la costruzione del Forte di San Nicolò, il più esteso di tutti (comprendeva l'intera area dell'attuale aeroporto Nicelli).

Nel 1646, poi, di fronte all'acuirsi della minaccia turca a seguito dello scoppio della Guerra di Candia, si ritenne necessario rafforzare ulteriormente le difese del porto di Malamocco con la realizzazione di due nuovi forti, per la cui progettazione venne nominata un'apposita commissione di tecnici, incaricati di studiare la situazione. Le due costruzioni, realizzate una dirimpetto all'altra sulle sponde dell'accesso portuale, vennero completate però solo nel 1726 e presero il nome di Forte di San Pietro e Forte degli Alberoni.

L'intero complesso difensivo era poi implementato attraverso tutta una cerchia di batterie su palafitte che circondavano a corona Venezia dal lato di terraferma. Tale era dunque il complesso militare che difendeva la città ancora nel 1797, alla caduta della Repubblica di Venezia.

Il sistema difensivo durante il periodo della Serenissima Repubblica, era geograficamente distribuito - a partire da nord - con le seguenti postazioni:

Ceduta la città all'Impero austriaco con il trattato di Campoformio, i militari asburgici, temendo la minaccia costituita sulla terraferma dal vicino Impero francese, avviarono una generale revisione dell'apparato difensivo della laguna, che venne però interrotta proprio dall'arrivo dei Francesi nel 1805. Questi proseguirono a loro volta l'opera intrapresa dagli Austriaci, sino alla definitiva caduta di Napoleone e al ritorno dell'Austria nel 1814.

Inoltre nella città, collegato al convento di Santa Chiara e prospiciente da sud la testa del ponte ferroviario, vi era il Forte Santa Lucia (costruzione austriaca), oggi inglobato nel ponte stradale che gli passa sopra.

A questo sistema lagunare venne ad aggiungersi, sulla terraferma, il nuovo e grandioso Forte Marghera, destinato a garantire la difesa di Venezia in corrispondenza del punto in cui più la terraferma si avvicinava alla città, rendendola vulnerabile ai tiri d'artiglieria.

Il complesso fortificato franco-austriaco si realizzò dunque nel rafforzamento delle preesistenti opere difensive della Serenissima, attraverso la realizzazione delle seguenti fortificazioni, così distribuite:

Le tre fortezze erano costruite in forma poligonale, tra loro identiche, e poste ad una distanza di 3500-4500 m da Forte Marghera, che doveva garantirne la protezione in seconda linea. Ogni Forte era dotato di una ventina di pezzi di medio calibro posti su 12 piazzole allo scoperto, inoltre postazioni per mortai, fucilerie e mitragliatrici erano poste su tutto il perimetro e in 4 "Caponiere" che, protese nel fossato artificiale che circonda ognuno dei forti, garantivano la copertura da ogni lato. Il costo dei forti fu per l'epoca ingentissimo, soprattutto considerando il fatto che, al momento della loro ultimazione, l'ulteriore potenziamento delle artiglierie ne aveva reso del tutto inutile la funzione.

Agli inizi del XX secolo, le crescenti tensioni destinate poi a sfociare nella Grande Guerra portarono a rivedere il sistema difensivo di Mestre, con la creazione di una nuova cintura di fortificazioni, più esterna, costituita da sette nuove fortezze, che a nord sfruttavano la difesa naturale costituita dal fiume Dese:

Manicomio di Colorno

La Storia

La struttura, situata in un’area del Palazzo ducale, per oltre 100 anni ha accolto i malati della provincia fino al 1978, anno in cui venne approvata la legge 180, che sancì la progressiva chiusura degli ospedali psichiatrici.
Dopo tale legge, la gestione dell’ospedale psichiatrico di Colorno passò dall’Amministrazione provinciale all’Unità sanitaria locale, che lo diresse fino alla chiusura definitiva, avvenuta negli anni Novanta.

Il luogo, inadatto, come detto, ad ospitare i degenti, è stato più volte oggetto di proteste da parte di chi riteneva che queste strutture fossero del tutto inadeguate, e ciò andò avanti per un secolo quasi, fino agli anni sessanta, quando Mario Tommasini venne a cambiare radicalmente l’idea della psicologia in Italia.In effetti, ci sono alcune precisazioni da fare sulla funzione che all’epoca questa struttura ricopriva realmente, in quanto era adibita più a ghetto per le persone che in quell’epoca risultavano pericolose socialmente, piuttosto che per una qualche patologia.Infatti, fra i vari momenti di protesta, ci fu quello degli anni sessanta, dove un gruppo di studenti di medicina occupò la struttura rivendicando il diritto all’uguaglianza dei degenti, denunciando discriminazioni, gerarchie assurde e l’impossibilità di avere contatti esterni con i familiari. Ci sono state apparizioni di fantasmi, rumori e oggetti che si muovono al suo interno, tutte opere legate alle persone che sono morte al suo interno e legate ancora al loro ultimo luogo vissuto. Come si può essere sicuri di tali presunte affermazioni? La storia insegna ed eventi simili oggi non sono tenuti più come anni fà al loro silenzio, anzi, sono di dominio pubblico, cosicchè le persone vive capiscano sempre di più che dopo la morte, ci sono ancora oscure verità che non si comprendono ancora a pieno.

Riporto una visita fatta al manicomio di cui non si sa molto in merito, giusto per lasciare comprendere cosa sia divenuto tale posto:

“Chi ci ha messo piede capisce che nulla è mai fermo in quel luogo.

Le condizioni dei pazienti erano pessime, maltrattati e costretti a forza dagli infermieri a subire di tutto. I malati mentali, non erano poi tanto malati mentali, c’è chi era nato nel manicomio e ci restava tutta la vita pensando fosse la normalità, prostitute, ubriachi, ogni genere di persona scomoda e ritenuta inutile dalla società, chiusa in quelle mura a subire maltrattamenti, elettroshock, lottando contro la pazzia. Ma ecco che nel ’69 giovani studenti di medicina occuparono il manicomio di Colorno portando miglioramenti alla vita degli internati, e assieme alla nuova amministrazione finalmente intorno agli anni novanta il manicomio chiuse i battenti.

Ex Ospedale Psichiatrico di Mombello (MB)

La Storia

Nell' Ottocento era conosciuta come la villa di Napoleone, perchè lì fissò la residenza l' imperatore francese durante la campagna d' Italia. Un secolo più tardi, la settecentesca Villa Pusterla-Crivelli e il suo grande parco vennero trasformati nell' ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini, noto a tutti come il «manicomio di Mombello». Oggi, che la struttura sanitaria è stata di fatto smantellata e i padiglioni costruiti negli anni sono stati quasi tutti abbandonati a se stessi, l' intera proprietà rappresenta il lascito più consistente di Palazzo Isimbardi alla neonata Provincia di Monza e Brianza. Quando la giunta Penati metterà mano alla divisione dei beni, i 700 mila metri quadrati della collina di Limbiate coi suoi «gioielli» saranno sicuramente il primo argomento all' ordine del giorno per valore economico e importanza storico-architettonica. Costruita nel 1754 dall' architetto Francesco Croce sui resti di edifici che risalivano addirittura al Medioevo, Villa Pusterla-Crivelli ospitò nelle sue stanze il re delle Due Sicilie, Ferdinando IV, oltre a Napoleone. Nella tenuta di Mombello risiedevano la madre dell' imperatore, Maria Nunziata, e le tre sorelle Carlotta, Elisa e Paolina. E, sempre qui, il 14 giugno 1797 Paolina sposò il generale Leclerc. Dai fasti della Repubblica Cisalpina, in pochi decenni l' intera struttura fu trasformata in casa di cura per malati di mente. Per 130 anni, Villa Crivelli fu così un ospedale psichiatrico, che intorno al 1960 arrivò ad avere più di 3000 pazienti,toccando la soglia dei 3500 durante la 2° Guerra Mondiale, attirandosi l' appellativo di «colosso dei manicomi italiani». Con la legge Basaglia, l' intera struttura venne poi lentamente abbandonata. Dal degrado si sono salvati Villa Crivelli, attuale sede dell' Istituto tecnico agrario, le palazzine che ospitano l' Istituto commerciale per periti aziendali e il «Corberi», una casa d' accoglienza per malati psichici gravi. Gli altri edifici non godono invece di buona salute. Proprio per valorizzare un patrimonio lasciato a se stesso, un anno fa il Comune di Limbiate ha ottenuto di poter recuperare tre edifici per realizzare un centro anziani, una scuola di formazione per medici e infermieri e uno spazio per le associazioni.

Alcuni bambini la ricordano perchè, chi non si comportavano bene veniva detto che sarebbero stati portati “al di la del muro“, dove i “matti” camminavano a due a due vestiti di grigio, lenti e barcollanti, osservati dai curiosi da lontano, per non venire visti, per poter scappare in fretta.Qui fu recluso con uno stratagemma Albino, figlio non riconosciuto di Mussolini.rruolatosi nella Regia Marina, dopo aver frequentato il corso di telegrafia a La Spezia . Secondo le testimonianze di Minella, Benito Albino manifestò più volte ai commilitoni la sua stretta parentela con il duce. Fatto rimpatriare, fu anch'esso, come la madre, rinchiuso in un istituto psichiatrico a Mombello di Limbiate , dove morì nel 1942 per consunzione,ma alcuni studiosi hanno definito la sua scomparsa "un delitto di regime, dalla nascia oltre ,avrebbe ereditato dalla madre alcune turbe psichiche,quasi ceco in un occhio,e una gamba paralizata.

La Leggenda

Si narra che, nei suoi sotterranei, esista un passaggio segreto voluto da Napoleone Bonaparte per fuggire in caso di pericolo. Ma i misteri non terminano certamente qui. Nei sotterranei della Villa si trova un pozzo.Difficile scoprire cosa celi il suo fondo perché in gran parte riempito da detriti, ma sembra che siano stati condotti esperimenti segreti su diversi pazienti i cui corpi poi, venivano gettati proprio nel pozzo e disinfettati con calce viva.

Le emozioni provate durante la realizzazione degli scatti sono state molte e abbastanza forti. Sicuramente, se non si pensa a luogo solo come a un set fotografico si percepisce la disperazione, la malinconia, la solitudine che potevano essere nelle menti dei ricoverati (o rinchiusi) che non so dire se fossero tutti realmente “folli”…”
 

52 Gallerie del Pasubio

È lunga 6.555 metri, dei quali ben 2.335 sono suddivisi nelle 52 gallerie scavate nella roccia; ogni galleria è numerata e caratterizzata da una propria denominazione. La larghezza minima è stata originariamente prevista in 2,20 m (il raggio esterno in curva è di almeno 3 m), con una media di 2,50 m per permettere il transito contemporaneo di due muli con le relative salmerie. La sua realizzazione fu di grande importanza strategica, in quanto permetteva la comunicazione e il passaggio dei rifornimenti dalle retrovie italiane alla zona sommitale del Pasubio, ove correva la prima linea, al riparo dal fuoco nemico; e ciò nel corso di tutto l'anno, contrariamente alla rotabile degli Scarubbi, accessibile sì da mezzi motorizzati, ma soltanto nel periodo estivo ed in condizioni molto più pericolose, sotto il tiro dei cannoni austriaci.

ANTONIO CANTORE

Antonio Tommaso Cantore nacque a San Pier d'Arena (oggi Sampierdarena, quartiere di Genova) nel 1860, figlio di Felice e Marianna Ferri. Dopo gli studi compiuti presso un istituto tecnico, nel 1878 entrò nell'Accademia militare di Modena; sottotenente nel 1880 al 29º reggimento fanteria; capitano nel 1888 presso l'81º reggimento fanteria; maggiore nel 1898 al comando del battaglione alpini Gemona del 7º reggimento; tenente colonnello nel 1903 al comando del battaglione alpini Aosta del 4º reggimento; nel 1908 ci fu la sua promozione a colonnello, e Cantore fu assegnato al comando dell'88º reggimento di fanteria. Pochi mesi dopo, però, rientrò negli alpini, per assumere l'anno dopo il comando dell'8° alpini, di nuova formazione.

Il 28 settembre 1912 Antonio Cantore fu imbarcato per la Libia. Al comando di quella nuova unità Cantore diede tutta la sua anima di vecchio alpino, tanto da far sì che l'8° venne denominato, addirittura, il "reggimento Cantore", con cui fu al comando dei battaglioni "Ge­mona", "Tolmezzo", "Cividale", cui si aggiunsero più tardi il "Vestone" ed il "Feltre". Al suo ritorno in Italia nel 1914 divenne maggior generale e dal 1º febbraio fu posto al comando della brigata Pinerolo; dal 16 luglio al comando della 3ª brigata alpini, pochi mesi dopo, tuttavia, preferì cambiare il proprio incarico con quello di comandante della 3ª brigata Alpini (divenuta poi brigata alpina Julia dal 1926), divenne infine generale della 2ª divisione di fanteria[3] nel giugno 1915.

Quando si trovava nel mezzo di un conflitto, Cantore non guardava in faccia nessuno, arrivando a spremere ogni energia dai suoi battaglioni per il raggiungimento della vittoria. Secondo una diffusissima e non trascurabile vox populi, questo suo temperamento a volte crudele e inflessibile avrebbe potuto procurargli la morte per mano dei suoi stessi uomini.

La morte e le tre versioni: cecchino, fuoco amico, tradimento

Per mettere in atto questo suo secondo piano, Cantore decise di compiere un giro di ricognizione nell'area che sarebbe stata teatro della nuova operazione. Durante la missione di esplorazione la postazione in cui egli si trovava fu fatta bersaglio di numerosi tiri di fucileria dalle postazioni austroungariche. Il generale fu colpito alla testa da un proiettile che lo uccise.

Lo studioso Burtscher, che era ufficiale dei Kaserjaeger in quel tratto di fronte, scrisse: "Il Generale seguiva, dalle vicine posizioni italiane, le fasi dello scontro. Nemmeno il saettare dei proiettili poté smuoverlo dal suo posto. Ad un tratto egli, senza dir motto, lasciò cadere il binocolo e si abbatté al suolo; una palla lo aveva colpito in piena fronte".

L'inaspettata morte del generale Cantore suscitò immediatamente forti sospetti tra i ranghi dell'esercito e nella popolazione ampezzana, rimasta in gran parte fedele all'Impero. L'uccisione era infatti avvenuta alla presenza di pochissimi testimoni, ed in molti potevano avere motivo di uccidere il comandante genovese.

In particolare, ad alimentare le dicerie e le congetture popolari fu la misteriosa scomparsa del cappello che il generale era sempre solito portare, e che indossava anche nel momento della sua morte.

Oltre alla versione ufficiale, si disse anche che fu colpito da un involontario fuoco amico, oppure da un "franco tiratore" ampezzano di fede asburgica oppure ancora si diffuse la voce che il colpo mortale fosse stato sparato da un soldato del Regio Esercito in segno di ribellione contro una dura disciplina applicata dal generale.

Secondo la testimonianza del pittore Edgardo Rossaro, volontario tra gli alpini sul fronte dolomitico, l'opinione più comune fra le truppe italiane fu che il generale Cantore fu individuato con facilità dal cecchino austroungarico a causa dell'alta visibilità dei gradi sul berretto (un'ampia fascia rossa con vistose greche dorate e grande aquila), tanto è vero che subito dopo l'uccisione del generale - riferisce Rossaro nel suo diario di guerra - il Regio Esercito decise di cambiare la foggia dei berretti per ridurne la visibilit

Antonio Cantore

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